Martina della Valle, ci racconta, la delicatezza e l’armonia del suo ultimo progetto: One flower, one leaf. L’artista, nota per cogliere nelle immagini la sensibilità nei confronti di temi quali Il trascorrere del tempo, la sua fugacità e il decadimento della bellezza, racconta il suo incontro con l’Ikebana -punto nevralgico del progetto- in cui si concentra parte della sua ricerca, della sua visione di immagine e concetti come vuoto, sintesi, tempo . Martina della Valle ci narra una ricerca basta sulla natura, origine di un processo creativo, partendo dalle tracce dell’intervento umano sulla vegetazione cittadina, in cui i valori cari all’artista e quei dettagli minimi e impercettibili, o magari “minori” vengono esaltati tramite un processo di decontestualizzione. L’artista ci conduce in  un archivio in progress, incentrato sulla natura, sulla sua selezione e decontestualizzazione, primi passi indispensabili per una composizione legata al concetto di Ikebana.

Il tuo ultimo progetto s’intitola One flower, one leaf ,che è stato ospitato in vari luoghi, prima al Dryphoto arte contemporanea a Prato, poi al Maxxi a Roma ed infine al ar/ge kunst di Bolzano, che lo ha esposto fino al 29 luglio nella seconda parte di Flowers are Documents a cura di Emanuele Guidi . Questa tua ricerca consiste in una raccolta di still-life fotografici sviluppatasi a conclusione di workshop partecipativi, svolti in città differenti. Questo tuo archivio in progress è incentrato sul concetto dell’Ikebana, me ne vuoi parlare?

L’ikebana comporta riflessioni su concetti come vuoto, sintesi, tempo: temi molto simili a quelli che attraversano la mia ricerca, e che guidano il mio modo di costruire un’immagine.
 Atto fondamentale per l’Ikebana è la scelta accurata di un protagonista; l’incontro con un elemento trovato in natura, sul quale ci si concentra per raccontarne la nostra visione. La selezione e la decontestualizzazione sono i primi due passi indispensabili per una composizione.

Il mio incontro con l’Ikebana è avvenuto già per “Wabi-Sabi”, il progetto da cui si è sviluppato “One flower, one leaf”.
In “O.f.o.l.” l’Ikebana è il linguaggio scelto per ritrarre la realtà vegetale specifica del luogo e del periodo dell’anno nel quale si sta lavorando. Ai partecipanti chiedo spostare l’attenzione sulle zone urbane marginali che normalmente vengono ignorate, sulle piante considerate “erbacce”, su quello insomma che Gille Clement definisce “Terzo paesaggio”: la riserva genetica del pianeta, lo spazio del futuro, un territorio non definito, in continuo divenire e adatto ad accogliere una grossa varietà di specie .

Questo progetto lo hai sviluppato con la collaborazione di Rie Ono, maestra di Ikebana, quanto è possibile portare una tradizione così antica come quella della composizione dei fiori giapponesi in occidente?

Il confrontarsi con una tradizione così vasta e antica, appartenente a una cultura lontana come quella Giapponese, è ovviamente non facile. Si corre il rischio di semplificare e di dare letture superficiali. D’altro canto si ha la possibilità di appropriarsene con uno sguardo neutro che osserva le cose senza pregiudizi.

La tradizione di comporre i fiori Giapponese funziona per sottrazione. Si mira a esaltare un elemento protagonista creando vuoti e aggiungendo contrappesi. La nostra cultura del Bouquet si basa sulla forma globale sul dare un’idea di ricchezza e di abbondanza. Niente di più distante e difficile da conciliare.

La collaborazione con Rie Ono si presenta come un workshop di Ikebana, ma lo scopo fondamentale è l’osservazione delle zone marginali cittadine da un punto di vista inusuale.
Il laboratorio di Ikebana è lo strumento per creare dei ritratti di un paesaggio attraverso gli “scarti” della vegetazione urbana. Ritratti che sono per la loro stessa natura strettamente site-specific.

E’ la prima volta che affronti una tipologia di ricerca partecipativa, com’è stato? Vuoi raccontarmi com’è nato realmente questo progetto, come lo stai portando avanti e come lo vivi durante il suo sviluppo pratico…

Come dicevo sopra il progetto è stato il naturale sviluppo del precedente “Wabi-Sabi”. Iniziando a fare una ricerca sull’Ikebana ho incontrato Rie Ono a Berlino. Dalle conversazioni con lei ho capito che la parte più interessante della pratica dell’Ikebana tradizionale era per me proprio il “plants hunting”: il cercare in natura quello che può dar origine a un processo creativo interessante. Da qua l’idea del workshop. È il mio primo vero progetto collaborativo e sono molto felice dell’esperienza.

Come spesso nei miei progetti, l’iter realizzativo è importante quanto il risultato finale.
La serie fotografica documenta degli oggetti che io ho chiesto ad altri di realizzare per me. In qualche modo io inizio solamente il processo, delegando lo svolgimento ad altri curo la regia e concludo ritraendone i risultati.

La partecipazione delle persone rappresenta in parte il fattore incontrollabile e imprevedibile, l’incontro fortuito, che sta solitamente alla base del mio lavoro.

Come già accennato, si è conclusa il 29 luglio la mostra da ar/ge kunst a Bolzano: Flowers are Documets, dove One flower, one leaf era presente nella seconda parte, una mostra che ha messo a confronto diversi artisti legati al linguaggio floreale. Si sono evidenziati dialoghi tra differenti pratiche e poetiche; i tuoi still-lifes erano accostati al linguaggio più politico e sociale di Kapawani Kiwanga, o ai bouquet delle artiste Milena Bonilla e Luisa Ungar con aspetti legati a concetti di identità e cultura, fino ad arrivare a Ettore Sottsass e Bruno Munari. Com’è stato confrontarsi con queste realtà differenti?

La scelta delle artiste e la selezione dei contenuti di documentazione sono il frutto di un’approfondita ricerca che Emanuele ha fatto sull’idea di composizione, sulla visione e lo “staging” del fiore.
Flowers are documents è stata animata da molte presenze diverse.  Arrangement II ha ospitato oltre ai lavori di Munari e Sottsass, una selezione della mostra “Glashaus II” curata da Paul Thuile alla Gärtnerei Schullian che racconta la storia e il lungo legame che la città di Bolzano con la floricultura.

Il nostro workshop ha avuto luogo negli spazi dell’Università di Bolzano, consentendo la partecipazione degli studenti.
La mostra ha funzionato molto bene come punto di convergenza di esperienze molto distanti legate per l’occasione da uno stesso tema.

Luca Guadagnini per ar/ge kunst 2017

Com’è lavorare con una “materia” in constante trasformazione, durante la mostra le opere hanno vissuto una loro metamorfosi legata al flusso temporale, dove si è evidenziato il concetto di transitorietà, che reazioni ha scaturito in te?

Il trascorrere del tempo, la fugacità di un’immagine, il decadimento della bellezza sono temi che mi hanno sempre interessata.
Quando ho iniziato a riflettere sull’Ikebana e sulla possibilità di creare delle sculture naturali così meticolosamente elaborate in ogni minimo dettaglio, mi sono chiesta che ruolo giocasse il fattore temporale.

Come da ar/ge kunst, già in occasione di “Wabi-Sabi” (la mia personale da DRYPHOTO a Prato) ho realizzato con Rie Ono una grossa installazione/Ikebana al centro della mostra. Il trascorrere del tempo come anche il clima sono stati elementi necessariamente da considerare nella scelta dei materiali. È impossibile prevedere la mutazione di una pianta mentre appassisce.

Quello che mi sono limitata a fare è accettare ogni fase del decadimento, documentandola e lasciando la composizione evolvere naturalmente in entrambi i casi fino alla chiusura della mostra.

La natura non è sempre stata presente nei tuoi lavori, anche se, ritrovo la presenza del fiore – il non ti scordar di me – in Mein Alles, questo simbolo ha da parecchio tempo una valenza simbolica nei tuoi lavori, oltre che molto poetica è legata qui al concetto di fatalità , di ricordo, e torna la transitorietà del tempo, cosa ne pensi?

I fiori sono portatori in ogni cultura di una grossa simbologia. Quello dei fiori è quasi un linguaggio cifrato in cui ogni singolo elemento può corrispondere a una parola o una frase.
In Mein Alles il non-ti-scordar-di-me che ho usato per una serie di stampe a contatto arriva da una corrispondenza segreta avvenuta tra due amanti tedeschi a metà dell’800.

Ma “lo stesso fiore non sboccia mai due volte e l’uomo non incontra mai un fiore nella stessa condizione” (Teshigahara Sofu). In questo senso il piccolo fiore di 150 anni è un reperto, che ci riporta direttamente a un tempo e a un luogo molto specifici.
Lo stesso avviene in O.f.o.l..

Quale sarà la prossima location di One flower, one leaf ?

La prossima location non è ancora decisa, ci sono varie possibilità ancora in via di conferma.
Fino ad ora ho lavorato su Prato, Roma e Bolzano e mi piacerebbe molto portare il progetto fuori dall’Italia, confrontarlo con contesti paesaggisticamente molto differenti e lontani.

Leda Lunghi

Luca Guadagnini per ar/ge kunst 2017