Marco Andrea Magni ci racconta Ho sempre agito per dispetto la sua ultima personale in mostra alla Loom Gallery di Milano. L’artista attraverso una fragile lievità e un’ elegante e raffinata accuratezza ci espone una prospettiva rovesciata dell’osservare e dell’essere; tra attenzioni e intenzioni, tramite una ricerca di rivelazioni e dissimulazioni di equilibri e instabilità, Magni ci conduce paradossalmente all’incontro dell’ignoto e della conoscenza. Le sue opere sono un atto in eterna ricerca, in una mostra in cui l’imprevedibilità dell’arte è un gioco di relazioni in cui lo spettatore è l’epicentro.
Ho sempre agito per dispetto è il titolo della tua personale esposta fino al 21 gennaio alla Loom Gallery a Milano; qui poni l’attenzione su una ricerca estetica che solo un occhio accurato può individuare, descrivi un mondo apparentemente inesistente e instabile ma, dietro al quale si cela raffinatezza, ricerca e profondità; voi spiegarmi com’è nata e dov’è arrivata?
Come dice Giorgio Agamben: “La vita è ciò che si produce nell’atto stesso dell’esercizio come una delizia interna all’atto, come se a furia di gesticolare la mano trovasse alla fine il suo piacere e il suo uso, l’occhio a forza di guardare s’innamorasse della visione, le gambe, piegandosi ritmicamente, inventassero la passeggiata”. È una visione che ho condiviso con il curatore della mostra Nicola Mafessoni. Insieme abbiamo riflettuto intorno alla questione del soggetto definendo le opere esposte come dei paradigmi dell’azione. I manufatti si presentano e si nascondono sul perimetro della visione come a voler toccare la soglia dell’azione o della sparizione. Si raccontano sotto forma di piccoli dispetti per grandi attenzioni o intenzioni: per questo motivo abbiamo scelto il titolo “Ho sempre agito per dispetto”, per introdurre una prospettiva rovesciata. Le conseguenze portano dei preconcetti modi di dire a dei modi di fare, a una declinazione di gesticolazioni in bilico tra incantesimi formali e idiomi della materia. Parlare con le mani è d’altronde una prerogativa tutta italiana. Un’infinita connessione degli atti e delle loro conseguenze, che portano l’attenzione sull’intenzione che determina l’azione stessa.
La mostra forse cerca di salvare e di salvaguardare ciò che dipende e potrebbe dipendere da noi, senza un fine né una fine. Tutto è risolto in un equilibrio precario aldilà dell’azione, in una sorta di potenziale in atto e in un silenzioso disordine di umori.
L’utilizzo di materiali molto preziosi come la cipria d’incenso, oro, pigmento di lepidottero, l’accuratezza con cui li utilizzi, fanno parte della tua poetica; in questa mostra tutto ciò ha una sua risultante non solo estetica ma anche concettuale e filosofica, vuoi analizzare il loro utilizzo nei tuoi lavori?
Mi piace ripetere che andare verso l’altro diventa per me una maniera e un’occasione per parlare della scultura, nella sua accezione di opportunità, circostanza, pretesto e forma qualitativa. La scultura si declina in superficie toccabile, in perimetri magnetizzati, in attrazioni e distrazioni, in conservatori, in vibrati, in patine pulviscolari, in un corredo di elementi impalpabili e sfuggenti. Sono sempre stato un attento osservatore, e la prospettiva con la quale ho imparato a guardare è una visione ribaltata: tutto parte e ritorna a noi stessi. Come dice Carlo Rovelli: “Noi, esseri umani siamo prima di tutto il soggetto che osserva questo mondo, gli autori, di questa realtà. Siamo nodi di una rete di scambi, nella quale ci passiamo immagini, strumenti, informazioni e conoscenza. Ma del mondo che vediamo siamo anche parte integrante, non siamo osservatori esterni. Siamo situati in esso. La nostra prospettiva su di esso è dall’interno. Siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie”. È questo pulviscolo che mi interessa, questo non so che, che si traduce in un quasi nulla dove la materia si mescola con le parole e le parole con gli stati d’animo.
Questa mostra ruota su un’impalpabile e ingannevole inconsistenza, ma è in questo paradosso di accuratezza estetica che si rifugia la chiave dell’esposizione, è così?
Nonostante la sostanza, esistono i modi, le maniere, le apparenze. Le opere si presentano come dei veri e propri moventi. Sembrano in un primo momento dei supporti del mutamento dove l’arte è del tutto imprevedibile. Più che opere sembrano dei modi di stare nel mondo, si predispongono a seguirne le forme, accogliendo di volta in volta le misure giuste per starvi dentro. Un pensiero delle maniere, delle immagini, delle forme, che non può non partire innanzitutto da come esse si danno sul piano primario della realtà. E’ l’intenzione che fa la scultura?
Come ti rapporti con lo spettatore?
Lo spettatore è forse l’epicentro di un’interrogazione continua – attraverso l’incontro con l’altro che ne diventa interlocutore e misura. Parte fondamentale della pratica è, infatti, l’opportunità imprevedibile della relazione: tutto nasce e si sviluppa dal desiderio e dai modi di incontrare l’altro, di riconoscerlo o misconoscerlo.
Leda Lunghi
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