Sophie Ko (1981 Tbilisi, Georgia) artista delicata effimera e profonda, descrive attraverso aerei e pregiati pigmenti, tematiche quali tempo, memoria, metamorfosi e rinascita. Essa evidenzia la ciclicità della vita come rinascita dall’oblio. Le opere di Sophie Ko sono il tempo nell’immagini, la sua ricerca coinvolge un’attesa. L’artista racconta in questo modo l’arte, un luogo eterno, in cui non esiste realmente il tempo ma solo una remota origine, un momento di un lungo percorso storico da ricordare ed omaggiare dentro quelle teche con una nuova visione di immagine.
Parlando della tua arte, si può dire che la tua poetica si basa sul tempo e sulla memoria, ma inizia essenzialmente dal rapporto con l’immagine?
Oggi viviamo in un’epoca in cui in ogni istante si producono migliaia di immagini; per la prima volta siamo sempre più oggetto di immagini che sono prodotte in modo indipendentemente dalla mano o dall’occhio umano. La maggior parte di queste immagini non hanno né scopo ludico, né conoscitivo, ma sono semplicemente funzionali: il regista e artista Harun Farocki chiama queste immagini «operazionali», per sottolineare come queste siano solo dei passaggi di un processo, istanti funzionali alla produzione di qualcosa, ma in cui la visibilità delle immagini stesse è del tutto secondaria. Basti pensare ai sistemi di controllo video: solo in casi eccezionali queste immagini hanno un osservatore. Sono immagini prodotte dalle macchine e destinate alla loro lettura e non a quello dello sguardo umano. Solo nel caso di un incidente o di un delitto, per esempio, queste immagini entrano in relazione con uno sguardo. Possiamo anche pensare, che queste immagini a differenza di quelle che riguardano lo sguardo umano, non hanno un né inizio né una fine, in quanto la loro produzione è attiva illimitatamente 24/7.
Come mostra Jonathan Crary in 24/7 è proprio a partire dal mondo delle immagini che diventa comprensibile la dimensione temporale in cui siamo inseriti: un tempo che ha annullato la tradizionale distinzione fra il buio e la luce, il giorno e la notte, l’attività e il riposo. Il 24/7 è un tempo senza divenire, senza interruzione e senza il ritmo scandito dalla nascita del sole. Forse si può dire che l’universo temporale e immaginale a cui siamo consegnati non è né circolare, né lineare: si tratta della ripetizione seriale dell’identico, una sorta di eterno presente.
In questa cornice, la morte stessa rappresenta uno scandalo o un limite; viviamo in un sistema che tende a convincerci di poter superare anche la morte. La morte e il lutto vengono quasi censurati e rifiutati esattamente come si fa con la vecchiaia e con qualsiasi segno del tempo. Gli spot pubblicitari ci spingono sempre più all’acquisto di prodotti anti-età, anestetici, antidepressivi. Anche solo parlare della morte di una persona cara è diventata imbarazzante; mostrare segni di dolore o tristezza è divenuto scandaloso.
Con la sparizione della morte passano anche le immagini. La morte sparisce per permettere alle immagini di passare. Le immagini hanno avuto un legame strettissimo con la commemorazione. Commemorare i morti rappresenta l’invocazione e il loro ritorno e uno dei modi è attraverso le immagini. Commemorare i morti significa anche avvicinare tempi che altrimenti rimarrebbero separati.
Ora per commemorare bisogna ricordare. La memoria è la facoltà epica per i greci. Mnemosyne, colei che ricorda, era per i greci la musa dell’epica. Credo che sia ancora possibile pensare e immaginare dove l’immagine inizia, per secoli l’inizio delle nostre immagini è stata la Terra. Così le Geografie temporali nascono da una domanda di immagine sul tempo. Con il mio lavoro ho cercato di inserire il tempo nelle immagini e non le immagini nel tempo. La mia idea, è che queste opere siano un invito all’attesa, le Geografie temporali chiedono tempo per essere viste, vivono il tempo lento delle metamorfosi. Sotto questo aspetto, credo che la centralità dello sguardo umano sia ancora possibile e soprattutto insostituibile.
La rappresentazione della cenere è la base di tutto, essa vuole condurre al concetto di genesi, metafora, metamorfosi e rinascita?
Nelle Geografie temporali il fuoco appare allo stesso tempo come forza distruttiva e come testimonianza della capacità di resistenza che l’immagine mostra ben oltre la sua dimensione di traccia. Così una Geografia temporale è un’immagine allo stesso tempo vecchia e nuova, fatta di mobili resti di altre immagini e nuove forme mutevoli. La cenere delle immagini bruciate è la fine dell’immagine, traccia di vecchie immagini, ma è anche un nuovo inizio; la materia di cui è fatta l’immagine rappresenta sia il residuo di immagini passate, che il ritorno di un’immagine in una nuova forma. Scrive ancora, Didi-Huberman in merito al concetto di «sopravvivenza delle immagini», l’immagine «brucia della memoria, vale a dire che essa brucia ancora, anche quando non è più che cenere: come a dire la sua essenziale vocazione alla sopravvivenza». Nelle Geografie temporali l’immagine continua a bruciare non solo come senso delle immagini scomparse, ma anche come figura che trae vita dalle spoglie di ciò che è distrutto. Il bruciare delle immagini è ciò che porta con sé la vita passata nel presente, è il crescere della vita che resiste alle forze distruttive del tempo.
Inoltre possiamo pensare alla cenere come luogo del custodimento: penso al fuoco custodito sotto le ceneri, alla pittura di Pompei custodita sotto la città bruciata. Quindi come un luogo dove le due dimensioni primarie la vita e la non-vita sono in continua tensione e quindi in divenire.
Le tue opere sono realtà in movimento, materia, pigmenti dentro teche che si spostano modificando l’opera e l’immagine; esiste quindi un evidente legame con il tempo, che segna, trasforma, scandisce ogni cosa, vuoi approfondire questo concetto?
Una componente essenziale delle Geografie temporali è la forza di gravità che opera sulla e con la materia del quadro, la cenere, il pigmento puro. La gravità spinge la materia a cadere, la fa precipitare e in questo senso, dunque, ogni Geografia temporale è un segnatempo, un orologio a polvere. La cornice delimita lo spazio dell’immagine di materia, come le ampolle della clessidra definiscono lo spazio del tempo misurabile. Con il passar del tempo la composizione del quadro cambia, la materia cade e il tempo grazie alla forza di gravità segna il suo passaggio.
Il tempo che segna una Geografia temporale è il tempo della distruzione, dell’esaurirsi della vita: per questa ragione si spiega la presenza della clessidra in ogni Vanitas, nei Memento Mori ed è legata alla nascita del genere Natura morta.
Ma il tempo della Geografia temporale – come quello elargito da una clessidra – non è solo il tempo della fine e della distruzione. Nella celebre lirica di D’Annunzio La sabbia del tempo siamo invitati a pensare la clessidra come simbolo della fugacità del tempo, della sua irreversibilità, della vita come inesorabile perdita e consumo; credo che sia più vicino al senso che esprimono i miei lavori, l’immagine duplice che Ernst Jünger offre nel Libro dell’orologio a polvere: Jünger ha osservato che le atmosfere e le costellazioni di immagini a cui la clessidra rimanda sono contrastanti; se da un lato l’orologio a polvere indica l’inesorabile finire della vita – simbolo del precipitare verso la fine di tutte le cose terrene – dall’altro, esso concede all’uomo il tempo della meditazione, della profondità, dell’arte e dell’ozio. La clessidra si svuota con il cadere della polvere, il tempo passa inesorabile, ma come cresce la sabbia sul fondo dell’ampolla inferiore, così la vita prende forma nel suo scorrere, nel suo rapportarsi alle forze naturali.
Le Geografie temporali intendono mettere in scena questo rapporto tra tempo e immagine fatto di peso, di pressione, di gravità e di distruzione del tempo sulle immagini, ma anche di formazione, profondità, ritorno e rinascita rispetto alla macina del tempo. Le immagini non solo subiscono il tempo, ma segnano un tempo, gli danno forma, lo portano alla visibilità, lo riempiono di senso, gli danno vita. Mi piacerebbe che le Geografie temporali fossero intese come disegni del tempo che si insediano in un luogo, immagini spaziali del rapporto dialettico che intratteniamo con il tempo. Quindi, cerco di far incontrare tre tempi nello stesso luogo, il luogo del quadro: il passato che è la memoria, il presente che è davanti a noi, e il futuro che è il sentimento dell’attesa.
Invitare lo sguardo (lo spettatore) a un’attesa. Inserire il tempo nelle immagini e non le immagini nel tempo, così le immagini non cessano di trasformarsi e di crescere. Essendo le immagini vive, e essendo fatte di tempo e di memoria, la loro vita è sempre sopravvivenza e resistenza. Come scrive Walter Benjamin ne Il narratore: «L’immagine lotta con la potenza del tempo (…) e da questa lotta (…) emergono le esperienze schiettamente epiche del tempo: la speranza e il ricordo».
Che significato ha il colore?
Il colore è il testimone della luce. O meglio è il testimone dell’incontro della luce con le cose e lo sguardo. Credo che Hugo von Hofmannsthal esprima in un modo radicale la questione: «Ma che cosa sono i colori se non prorompe in essi la vita più fonda degli oggetti? Ogni creatura (…) mi si levava incontro come rinata dallo spaventoso caos della non-vita, dal baratro dell’irrealtà, così che io sentii, no, seppi, che ognuna di quelle cose, di quelle creature, era nata da un terribile dubbio del mondo e con la sua esistenza copriva ora per sempre un’orrenda voragine, il nulla spalancato!»
Il materiale che usi per le tue installazioni è sempre vetro contornato da elementi naturali viventi, questo vale sia per “Giardini di Adone” in Silva Imaginum, omaggio a Claudio Parmiggiani, sia per “Fiori dal Male” in Beyond Landscape – rispettivamente personale e collettiva nella tua galleria milanese Renata Fabbri –; che cosa simboleggia questa scelta?
Il vetro l’ho scelto per la sua trasparenza. Nello stesso tempo tiene lo spettatore a distanza, perché chi osserva ha come un senso di pericolo e di fragilità che obbliga a mantenersi in una certa lontananza; avvicinarsi troppo al vetro può ferire sia chi guarda, sia la fragilità dell’opera. Mentre, come osservi tu, le altre «cose» – le ali di farfalla, i rami del nido d’uccello, i fiori raccolti nelle frane con le loro nuove radici – sono scelte simboliche, sono le cose che troviamo nelle raffigurazioni delle prime nature morte.
Le Geografie temporali sono in fondo delle Vanitas, anche se al loro interno non portano né fiori raccolti, né ali di farfalle, ma solo il passare del tempo e la lenta metamorfosi delle forme. E proprio in quanto sono Vanitas mi piace pensare a queste opere come inni alla vita.
Secondo la tua opinione l’arte ha un tempo, o è legata a un valore assoluto e atemporale impossibile da modificare?
Credo che la tua domanda implichi un’altra domanda che è relativa a che cosa intendiamo con la parola «contemporaneo». Pensiamo a come oggi sia diffusa la preoccupazione di essere «frizzanti» e «contemporanei» nell’arte. E’ come se la preoccupazione della società di sembrare sempre giovanile si riflettesse anche nell’arte. “L’arte non può essere moderna, l’arte appartiene all’eternità”. Scriveva nel diario dal carcere Egon Schiele. Ogni nascita è legata al proprio tempo e ogni cosa possiede un proprio tempo che possiamo definire come la sua durata. Non possiamo fuggire al nostro tempo. Ora il «tempo lungo» che l’uomo chiama eternità (una parola inattuale oggi) in fondo può essere pensato come il passaggio dal tempo lineare a una dimensione atemporale. Credo fortemente nell’importanza che si deve accordare agli anacronismi, ai risvegli delle forme, ai ritorni delle forme e alle loro sopravvivenze. Le mode cambiano indubbiamente, ma credo che l’arte non sia questione di moda. È la domanda, la meraviglia, è lo stupore davanti al mondo e davanti a sé stessi.
Mi interessa l’istante in cui l’opera d’arte perde la temporalità a favore dell’eternità. E proprio in quanto un’opera è capace di essere figlia del proprio tempo e in grado di radicarsi nel proprio presente che eccede rispetto alla propria collocazione cronologica. Un grande capolavoro dell’arte, proprio nella misura in cui è espressione del proprio tempo travalica i limiti della propria epoca e aspira all’eternità. In questo si distingue dalle opere minori che rimangono legate in modo didascalico al proprio tempo, in qualche modo lo subiscono, ne sono vittime.
Indubbiamente è importante sapere dove e quando qualcosa viene pensato e creato, ma nello stesso tempo ciò che conta è che le prime pitture nelle grotte continuino a interrogarci e a stupirci e a porci le stesse domande che probabilmente ponevano ai primi uomini.
L’arte, secondo la mia opinione dovrebbe essere la testimonianza di una non sottomissione, di una resistenza al proprio tempo.
Nei tuoi lavori ci sono spesso dei rimandi all’arte del passato, alla letteratura e alla filosofia, come ti rapporti a loro nella tua ricerca?
Si, capisco che l’arte che io amo possa essere definita l’«Arte del passato». Sostituirei questa espressione con Arcaico. Arcaico significa: prossimo all’arché, cioè all’origine. Ma l’origine non è situata soltanto in un passato cronologico.
Credo che la poesia, la filosofia e qualsiasi altra forma di sapere in cui si conserva traccia indelebile dell’uomo facciano parte della vita stessa; esattamente come un fiore, o un sasso, un albero. Ci aiutano a legare noi stessi ancor di più alla vita. Certo, fra l’arte e la filosofia c’è una tensione legata a due modi differenti di vivere la verità. Questa differenza è stata evidenziata da Nietzsche: «“Lasciatelo stare” esclama l’arte. “Risvegliatelo” esclama il filosofo, nel phatos della verità. Ma, egli stesso sprofonda, mentre crede di scuotere il dormiente, in un magico sonno ancor più profondo-forse egli sogna allora le “idee” oppure l’immortalità. L’arte è più potente della conoscenza, poiché essa vuole la vita, mentre la conoscenza raggiunge come suo fine ultimo soltanto-l’annientamento».
Credo che la conoscenza sia soprattutto riconoscimento e anche quando creeiamo, non dobbiamo scoprire, dobbiamo semplicemente riconoscere. Non si tratta solo dell’osservatore ma anche del creatore: neppure lui scopre, bensì riconosce. Ecco perché nel nostro cammino riconosciamo il fiore, la stella, la luce e i buoi esattamente come una poesia, una brano musicale o pensiero filosofico. Questi rimandi non sono altro che riconoscenze.
Per tornare al rapporto tra i miei lavori e la filosofia: di certo per me è stato un grande privilegio avere un dialogo e un confronto nella preparazione delle mostre con il pensiero di Federico Ferrari, che è stato anche mio maestro all’Accademia di Brera. Il suo insegnamento ha inciso la mia arte proprio nel suo concepimento. Tutta la sua riflessione filosofica è attraversata da parole inattuali come: bellezza, eternità, senso, libertà…
E come sai cara Leda, anche il dialogo con mio marito, Maurizio Guerri incide molto su il mio lavoro. Quindi, tante cose nascono in un modo molto naturale nella vita di tutti i giorni, nel dialogo giorno dopo giorno.
La tua ultima mostra è “Terra Geografie Temporali” alla Galleria De’ Foscherari di Bologna, in questa mostra riporti al centro del tuo lavoro il concetto di terra come uno dei quattro elementi, anche a livello metaforico, ponendo delle opere a scogliera dinanzi alle quali hai posto l’unico acquarello “Kaspar Hauser”, che diviene confine ultimo dell’umanità; in questa mostra cerchi di ridare un senso ad un nichilismo in cui la nostra società è sprofondata?
Il nichilismo è un termine che può assumere tanti significati, in questo senso lo assumerei come assenza del senso.
Ora qualsiasi opera d’arte è una tensione verso un prender forma e quindi è attraversata dalla volontà di dare un senso al proprio operare. Da questo punto di vista considero l’arte un gesto politico perché ridefinisce le cose a livello sensibile. L’arte non sta ovviamente in prese di posizioni ideologiche o nella partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica, ma nella ridefinizione delle cose nello spazio e nel tempo. In questo senso l’artista (qualsiasi artista, poeta, pittore ecc.) è in antitesi all’atteggiamento nichilistico. L’artista è un sognatore di forme e con esse si oppone al nulla. Lotti per qualcosa, o in nome di qualcosa. Per ritornare di nuovo a Hofmannsthal ogni creatura nasce proprio da questo terribile dubbio del mondo, e con la sua esistenza copre un’orrenda voragine, il nulla spalancato. Credo che l’arte debba ancora continuare a vedere le cose come miracolose, con uno sguardo religioso. Come indica un’etimologia della parola «religione», dal latino religio, relegere «raccogliere», l’arte non fa che raccogliere e dare un’altra durata, far durare nel tempo il breve passaggio delle cose.
Significativo a tal riguardo il primo mito sulla pittura ricordato nella Naturalis Historia di Plinio il Giovane che narra dell’ombra tracciata sulla parete: figlio di Butade presa d’amore per un giovane e dovendo quello partire, tratteggiò i contorni della sua ombra proiettata sulla parete dal lume di una candela. Quindi la pittura, e con essa la lunga storia delle immagini, nascono dalla dolorosa separazione con l’amato, con ciò che amiamo. Proprio per questo, credo che non possa avere uno sguardo nichilistico colui che traccia, colui che testimonia, chi dà forma, che crea.
Per quel che riguarda questa mia l’ultima mostra da De’ Foscherari – e ricollegandosi alla riflessione sull’inizio delle immagini – ho scelto il titolo Terra anche come simbolo di questo nostro inizio, inizio della vita e delle immagini. Ancora una volta Terra come il luogo delle immagini.
Il riconoscimento della Terra è al centro anche dell’acquerello Kaspar Hauser, l’unica opera in mostra in cui la dimensione figurativa della mano torna al centro dell’immagine. La figura mitica di Kaspar Hauser è il simbolo dell’esistenza umana: un viaggio incerto nella vita come quello di Kaspar si trasfigura nell’uomo su una piccola imbarcazione, che avvolto dal bianco e in silenzio, si muove alla ricerca della propria terra. La terra non è ancora visibile, ma è quella la direzione del viaggio. Kaspar Hauser è anche un omaggio alle imbarcazioni che compiono i viaggi più tragici oggi, guidati dal desiderio di raggiungere ancora una volta, la terra ferma.
Leda Lunghi
Si ringrazia per le immagini la galleria De’ Foscherari di Bologna e la galleria Renata Fabbri di Milano.
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